PROVINCIA D'EUROPA

Firenze - Italia

Un po’ di numeri Le guerre africane

Non per fare insensate classifiche. Solo per ricordare come nel continente, nel 2021, sono state oltre 46 mila le vittime di conflitti di varia natura e decine di milioni i profughi. Dodici i paesi con più di mille morti. Il primo è la Nigeria, seguita da Etiopia e Rd Congo. Il Sahel l’epicentro del terrorismo mondiale. Le possibili nuove guerre
Articolo di Gianni Ballarini
Fonte: Nigrizia

 

Siamo in balia di un fiume di retorica bellica. Di paure. E di compassione. Non solo per ciò che suscitano le immagini che invadono le nostre vite. Ma anche per le persone concrete che cominciano ad arrivare massicciamente, da est, nelle nostre strutture pubbliche. Nelle nostre famiglie.

Ma è innegabile che in queste ore serpeggi più di una domanda: perché per le vittime della guerra in Ucraìna sì, mentre per chi arriva da violenze torture e guerre africane, si alzano sempre barriere o intoppi burocratici? Perché non prestiamo un briciolo della nostra attenzione anche ai conflitti africani che “producono” ogni anno decine di migliaia di vittime e decine di milioni di profughi?

È vero, dunque, che tutte le morti non sono uguali? A Nigrizia riceviamo lettere di questo tenore, con queste implicite domande. Le scrivono missionari o volontari che vedono o hanno assistito alla violenza subita dai civili, perlopiù giovani, in molti paesi del continente africano.

È quindi da deplorare chi dà risalto a una sofferenza in nome di un’altra trascurata?

Vicino o lontano. Ma quanto?

La verità è che la dialettica di vicino e lontano è complicata. C’è sempre una vittima più infelice e più ignorata, se lo scopo è fare una classifica a ogni costo.

Qual è il senso di questa lunga premessa? Avvertire il lettore che anche in questo articolo, dedicato alle guerre e ai conflitti africani, ci sarà qualche paese, qualche vittima, qualche dolore trascurati. La comparazione è una buona maestra, purché non se ne abusi.

Se prendiamo il mappamondo e ci spostiamo col dito sul continente africano da est a ovest e da nord a sud, si fatica a trovare aree non incrostate da conflitti, guerre civili, terrorismi, o derive autocratiche.

2021, anno tumultuoso

Il 2021, poi, è stato un anno tumultuoso per le Afriche. Pochi i conflitti che si sono conclusi. Molti si sono intensificati. Altri rischiano di scoppiare.

Ma quante sono le guerre continentali? Se per guerra intendiamo, con in mano il vocabolario Treccani, un «conflitto aperto e dichiarato fra due o più stati, o in genere fra gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi condotto con l’impiego di mezzi militari», sono almeno una ventina le principali aree di crisi nelle Afriche. Prendendo a prestito i dati – sempre aggiornati ma pur sempre approssimativi – forniti da una organizzazione indipendente come l’Armed conflict location & event data project (Acled), sono 12 i paesi che dal 1° gennaio 2021 al 18 marzo 2022 hanno superato la soglia dei mille morti per le violenze armate.

La contabilità è un po’ noiosa, ma forse utile: Nigeria (10.584), Etiopia (8.786), Rd Congo (5.725), Somalia (3.523), Burkina Faso (2.943), Mali (2.344), Sud Sudan (2.160), Repubblica Centrafricana (1.801), Sudan (1.342), Niger (1.324), Mozambico (1.276), Camerun (1.141).

Sommando si ha la macabra cifra di 42.949 morti, il 92,7% delle vittime africane di conflitti vari calcolati da Acled nel 2021 e primi mesi del 2022.

Le crisi nigeriane

Ogni area di crisi meriterebbe, ovviamente un approfondimento. La Nigeria continua a confrontarsi con molteplici minacce alla pace in tutto il suo territorio, con un’insicurezza sempre più profonda nelle aree settentrionali e meridionali del paese. Mentre un’insurrezione islamista di lunga durata e l’attività di milizie etichettate come “banditismo” continuano ad avere un impatto sulle regioni del Nord, la ribellione separatista del Biafra è stata una causa di disordini nel sud.

Durante il 2021, Acled ha registrato un aumento del 22% nel numero di eventi di violenza politica organizzata nel paese, con una crescita del 30% delle vittime rispetto al 2020.

Le guerre etiopiche

L’Etiopia vive dal novembre del 2020 il conflitto con il Tigray. Conflitto che si è esteso anche alle regioni Amhara e Afar. Una guerra civile che ha portato alla proliferazione di uccisioni di massa, violenze sessuali contro gruppi di civili. Insurrezioni antigovernative e violenze locali si sono diffuse in tutto il paese, in particolare nell’Oromia e nel Benshangul/Gumuz.

Secondo il Programma alimentare mondiale (Pam), i quasi 17 mesi di conflitto hanno causato una grave crisi umanitaria nel nord dell’Etiopia, dove oltre 9 milioni di persone hanno bisogno di aiuti alimentari. Secondo l’Onu, oltre 400mila persone sono sfollate dal Tigray, ma nel paese sono oltre 2 milioni.

Il 24 marzo Addis Abeba ha annunciato una “tregua umanitaria” per accelerare la fornitura di aiuti umanitari alle persone bisognose nella regione teatro del sanguinoso conflitto.

Jihad in Somalia

In Somalia, l’impazienza occidentale potrebbe essere decisiva. Le forze straniere – la Missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom), finanziata dall’Unione europea – aiutano a tenere a bada i jihadisti. Tuttavia, le operazioni militari spesso alienano il consenso della gente locale ed erodono ulteriormente le relazioni tra loro e le autorità statali.

Nel paese, al-Shabaab potrebbe prendere il potere a Mogadiscio, come i talebani a Kabul. Le potenze straniere che intervengono nel paese sono intrappolate, come lo erano in Afghanistan. Incapaci di raggiungere i loro obiettivi, ma timorose delle conseguenze se dovessero andarsene. Per ora, sembrano destinate a rimanere.

Ma gli attentati si susseguono. Gli ultimi il 23 marzo a Beledweyne, nello stato centrale di Hirshabelle: 48 morti e 108 feriti il bilancio di due attentati.

Un attacco, rivendicato dal movimento al-Shabaab, che aveva come obiettivo Amina Mohamed Abdi, 33 anni, voce critica nei confronti del presidente e candidata alle elezioni parlamentari a Beledweyne, uccisa alla vigilia della sua prevista rielezione insieme a un altro parlamentare, Ali Abdi Dhulul.  

Oltre alle persistenti operazioni terroristiche, c’è pure un conflitto politico tra il presidente somalo Mohamed Abdullahi Mohamed e il primo ministro Mohamed Hussein Roble.

Terrorismo diffuso

Un recente rapporto dell’Istituto per l’economia e la pace, che ha sede a Sydney, ha affermato che il Medioriente e il Nordafrica hanno rappresentato il 39% delle morti legate al terrorismo in tutto il mondo tra il 2007 e il 2021.

Ma è il Sahel che sta diventando il nuovo epicentro del terrorismo. «Ha il tasso di crescita più veloce, con molteplici fattori sistemici che aggravano la situazione», il giudizio di Steve Killilea, analista dell’Istituto. Secondo il quale, questa regione africana ha rappresentato circa la metà delle morti legate al terrorismo nel 2021.

Burkina Faso, Mali e Niger, in particolare, sono stati vittime di continui attacchi. La zona di confine Liptako-Gourma, tra i tre paesi, rimane altamente pericolosa, e non solo per la minaccia terroristica, ma pure per la violenza intercomunitaria e per il crimine organizzato transnazionale.

E non ci si aspetta che la situazione cambi significativamente nel 2022.

Burkina Faso epicentro

Il Burkina Faso ha sostituito il Mali come epicentro della violenza, ed entrambi i paesi hanno visto cambiamenti radicali ai loro governi centrali attraverso recenti colpi di stato.

Il Burkina Faso è dal 2015 bersaglio di attacchi terroristici islamisti. La rottura dei negoziati, alla fine del 2020, tra il governo di Ouagadougou e la Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (Jnim), affiliata ad al-Qaida, ha portato a una recrudescenza delle attività della Jnim nel 2021.

Alla fine dell’anno erano morte, secondo fonti governative, oltre 2mila persone, 600 delle quali appartenenti alle forze di difesa e di sicurezza.

In risposta, le forze statali hanno aumentato le operazioni di controinsurrezione, incrementando ulteriormente la violenza politica e innescando contrattacchi da parte dei militanti.

Drammatica la situazione umanitaria. Oltre un milione e 800mila le persone fuggite dagli attacchi, al 28 febbraio di quest’anno.

A ospitare il maggior numero di sfollati è il centronord con 652.159 censiti. Tra questi sfollati interni, il 16,1% sono uomini, il 22,5% donne e, dato assai allarmante, il 61,4% bambini.

Ed è in continuo aumento lo spostamento delle persone: solo dal 31 gennaio 2022 a fine febbraio c’è stato un incremento del 4,17%.

Drammatica la situazione anche in Mali, immerso nel caos dal 2012. Paese che ha visto negli ultimi sei mesi del 2021 un aumento del 16% del numero di persone uccise rispetto ai primi sei mesi, secondo una nota della Minusma, la missione Onu nel paese.

L’attenzione in Mali, in Burkina e in Ciad sul completamento delle loro “transizioni” politiche potrebbe contribuire a distogliere l’attenzione dalla lotta al terrorismo.

Paesi della costa

Ma dal Sahel la minaccia si sta trasferendo anche ai paesi costieri dell’Africa occidentale. Minaccia evidenziata dalla recrudescenza degli attacchi nel nord della Costa d’Avorio, vicino al confine con il Burkina Faso. La Costa d’Avorio sta ora subendo ripetuti attacchi, e il timore è che l’estremismo violento possa colpire altre parti del paese e gli stati vicini come Ghana, Benin e Togo.

Lago Ciad

Una situazione simile è nel bacino del lago Ciad, con gli attacchi terroristici di Boko Haram, le esplosioni di violenza intercomunitaria e la criminalità organizzata. A creare ancora maggiori tensioni nell’area si sono aggiunti i conflitti locali. Come per il Sahel, è improbabile che le tendenze in quest’area africana cambino nel 2022, poiché la loro inversione richiederà un cambiamento di strategia da parte di tutti i soggetti interessati.

Cabo Delgado

Un altro focalaio di crisi e di guerra al terrorismo è Cabo Delgado, regione a nord del Mozambico. L’insurrezione estremista è in corso dalla fine del 2017. Una risposta iniziale lenta e non adeguata aveva portato al deterioramento della situazione. Quasi un milione di persone sono fuggite dai combattimenti.

I militanti hanno legami deboli con le reti dello Stato islamico. Da allora, un dispiegamento di truppe rwandesi, arrivate dopo un accordo bilaterale, e un dispiegamento multilaterale della Southern African Development Community (Sadc), hanno contribuito a limitare l’insurrezione e a ripristinare l’accesso umanitario alle popolazioni colpite. Tuttavia è reale il rischio di una guerra prolungata.

Sono preoccupanti anche le ramificazioni regionali dell’insurrezione di Cabo Delgado, compresi i collegamenti in paesi come la Tanzania e la possibile diffusione sul fianco orientale del continente.

Rd Congo

L’est del paese è devastato dalla guerra preda di centinaia di gruppi armati, molti dei quali bande locali legate al controllo di un territorio e delle sue risorse. Esistono anche milizie più strutturate che destabilizzano alcune aree.

Superata la crisi sicuritaria nella regione centrale del Kasai, l’insicurezza è ormai concentrata nelle tre province orientali del Sud Kivu, Nord Kivu e Ituri. La situazione di gran lunga peggiore è nell’area di Butembo-Beni, in Nord Kivu, dove dal 2014 le Forze democratiche alleate (Adf) compiono stragi di civili con un’efferatezza che non ha eguali.

L’Adf – milizia ugandese che ha operato a lungo in Rd Congo e che ora si dichiara affiliata al Gruppo stato Islamico – assalta villaggi, attacca civili uccidendoli barbaramente con armi “bianche”, seminando il terrore e provocando fughe di popolazione. Ha lanciato attacchi anche nella capitale ugandese lo scorso novembre. Per questo il governo di Kampala ha deciso di inviare nuovamente i suoi uomini nel paese confinante.

Anche perché la Monusco (missione dell’Onu) e lo stato congolese si stanno mostrando incapaci di porre un freno agli attacchi mortali.

Pantano Camerun

Se ne parla pochissimo. Ma dal 2016 in questa parte del continente è in atto un sanguinoso conflitto civile che nel corso degli anni è andato solo peggiorando. 

La crisi scoppia quando avvocati e insegnanti delle regioni sudovest e nordovest del paese hanno cominciato a protestare e organizzare manifestazioni con un chiaro intento politico: la secessione.

È la parte anglofona del paese a ribellarsi contro quello che viene avvertito come autoritarismo della maggioranza francofona, che è poi anche la maggioranza di governo. 

Ma la richiesta di una federazione a due stati per preservare i sistemi legali ed educativi anglofoni non è mai stata accettata dal presidente Paul Biya.

E così il conflitto ha continuato ad accendersi provocando finora, secondo Amnesty International, almeno 3mila vittime (secondo altre fonti i morti sarebbero circa 6mila) e causando 1 milione di sfollati.  

La posizione dogmatica del governo e l’approccio militare alla risoluzione del conflitto non stanno aiutando. Il conflitto, così, è destinato a persistere.

Altri focolai di crisi ci sono in Sud Sudan, Sudan, Centrafrica e Libia, che sta vivendo una transizione irrisolta e con le milizie pronte a confrontarsi anche militarmente a difesa degli attuali due governi in carica nel paese.

Nuovi possibili conflitti

Il problema in Africa è che all’orizzonte si intravedono anche nuovi possibili conflitti. Uno davvero minaccioso.

Nel Maghreb, le tensioni tra Algeria e Marocco, culminate con la chiusura dello spazio aereo algerino agli aerei marocchini e l’interruzione delle relazioni diplomatiche, fanno temere una svolta verso un’escalation militare. Segno che questa prospettiva non può più essere esclusa, il fatto che il Marocco ha recentemente acquisito dalla Cina un sistema di difesa antiaerea per rispondere a quello acquistato dalla Russia dall’Algeria. 

Già nel 2021 sono andati vicini allo scontro armato quando l’Algeria ha accusato il Marocco di aver ucciso due autisti algerini con un colpo di drone e promettendo «una risposta adeguata».  

Un altro focolaio di tensioni diplomatiche che rischia di degenerare nel 2022 è lo stallo delle relazioni tra l’Etiopia e i suoi vicini – Egitto e Sudan – attorno al riempimento della Grande diga della Rinascita con le acque del Nilo.

Tutti i negoziati per trovare una soluzione al disaccordo tra l’Etiopia e i suoi vicini sono finora falliti poiché Addis Abeba prevede di procedere con la seconda fase di riempimento della sua diga entro quest’anno.

Nessuno può prevedere la reazione dell’Egitto, che ha sempre assicurato di riservarsi il diritto di utilizzare tutti i mezzi, anche militari, per far valere i propri diritti sulle acque del fiume.

Una fotografia parziale delle instabilità africane. Ma già inquietante.

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